Per conoscere il grado di civiltà di un popolo, Mario Pagano invitava a leggerne il codice penale, al fine di verificare se e come quel popolo riconoscesse e garantisse i diritti degli inquisiti. Gli studi giuridici di Mario Pagano privilegiavano i profili criminalistici, se fosse stato un tributarista avrebbe forse suggerito di sfogliare il codice tributario per verificare se e come un popolo riconosca i diritti dei contribuenti e come contrasti l’evasione fiscale.

La questione fiscale offre la materia prima per costruire la giustizia sociale. Lo sapeva bene Giacomo Matteotti, il quale, come è stato scritto di recente, vi trovò «il terreno ideale e la via per quella equità, quella uguaglianza, quella parità di trattamento di cui sentiva l’assoluta urgenza». Al punto da abbandonare gli studi di diritto penale, il suo primo amore, per dedicarsi a quelli della fiscalità1.

Non tutti i popoli, però, hanno un codice tributario. Anzi sono pochi ad averlo: gli Stati hanno preferito avere mano libera nella attività di reperimento delle risorse essenziali per la loro vita, potendo contare (è un mio sospetto) su una legislazione frammentaria e asistematica.

Il codice tributario non c’è nemmeno in Italia, ma il governo si è impegnato ad adottarlo nel giro di qualche anno. Il Laboratorio fiscale dell’Istituto S.Pio V intende seguire il percorso che dovrebbe portare alla codificazione, con attività di divulgazione, di promozione della ricerca, di analisi critica e di proposte. È un percorso destinato a segnare la nostra civiltà fiscale, al quale l’Istituto sente il dovere di partecipare.

(A.M.)

1 V. F. Tundo, La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna 2024, pp. 7 e 8.

Laboratorio-sulla-fiscalita


Il giorno 4 ottobre 2024, presso l’Università Parthenope di Napoli, si è tenuto un incontro seminariale sul tema “Giacomo Matteotti: giurista e politico” in occasione della presentazione del saggio di Francesco Tundo, La riforma tributaria: il metodo Matteotti, edito dalla Università di Bologna 2024, alla presenza dell’autore, ordinario di diritto tributario presso l’università di Bologna.

Il lavori sono iniziati con la relazione introduttiva del prof. Stefano Fiorentini, ordinario di Dritto tributario dell’Università Parthenope di Napoli. Sono proseguiti con la ricostruzione del quadro storico-politico all’interno del quale ha operato Matteotti, tracciato dal prof. Dario Luongo, ordinario di storia del diritto medioevale e moderno nella stessa università Parthenope.

Il dr. Antonio Merone, coordinatore del nostro Laboratorio fiscale, è stato invitato come relatore ed ha evidenziato come le battaglie politiche sostenute da Matteotti in difesa dell’equa distribuzione del carico fiscale (in un’epoca in cui il fine primario della tassazione era quello di rimpinguare in ogni modo le casse erariali stremate dai costi della grande guerra) siano state la premessa storica indispensabile che ha portato poi alla affermazione del principi costituzionale di tassazione in base alla capacità contributiva, con il criterio di progressività.

Dopo l’intervento del dr. Giuliano Palagi, Direttore Generale dell’Agenzia Campana per l’Edilizia Residenziale Pubblica, il quale, tra l’altro, ha evidenziato come il tema della fiscalità sia un proficuo terreno di incontro tra scienze giuridiche e scienze dell’economie, al servizio della politica, ha chiuso i lavori il prof. Francesco Tundo. L’A. ha ricordato come la questione fiscale sia stata anche alla base dell’avvento del fascismo, quando – dopo anni che i Governi del primo dopoguerra discutevano di riforma fiscale (con la partecipazione anche di autorevoli giuristi ed economisti dell’epoca) senza giungere ad alcun risultato – il Parlamento approvò la famigerata legge sui pieni poteri al Governo. Si tratta della legge 3 dicembre 1922, n. 1601, intitolata: “Delegazione dei pieni poteri al Governo del Re per il riordino del sistema tributario e per la pubblica amministrazione“, pubblicata in G.U. 15 dicembre 1922, contro la quale Matteotti si era battuto strenuamente.


I Edizione Premio Nazionale Giacomo Matteotti

L’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” emana la I edizione del premio Giacomo Matteotti “Metodo scientifico e giustizia tributaria”, concorso a premi per una tesi di dottorato sul tema “Intelligenza artificiale, privacy e diritti del contribuente”.

Il bando scade il 30 giugno 2025 alle ore 12.

Lo studio vincitore sarà premiato entro il primo trimestre 2026 e sarà oggetto di pubblicazione.

BANDO-PREMIO-MATTEOTTI-2025


Il fisco, il fascismo e il metodo Matteotti.

Il saggio del prof. Tundo e la scoperta di Matteotti fiscalista: una ricognizione storica, una lezione di democrazia per l’Europa e per il legislatore nazionale. Le radici cattoliche.

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Il gioco del processo, le sue regole e l’abuso del diritto

A proposito del caso Napoli Obiettivo Valore

Immaginiamo che il processo sia un gioco (l’idea è di Carnelutti), con le sue regole (i codici), i suoi giocatori (attore e convenuto) e un arbitro (il giudice)

Immaginiamo che a gioco iniziato uno dei giocatori (diciamo il giocatore “A”) si renda conto che, applicando le regole del gioco vigenti, probabilmente perderà la partita.

Immaginiamo ancora che il giocatore “A” faccia parte del gruppo dirigente della federazione che disciplina il gioco in questione e che in tale veste ottenga una modifica del regolamento del gioco e che tale modifica gli consenta di vincere con certezza la partita.

Immaginiamo, infine, che l’arbitro riconosca come legittimo l’intervento della federazione (o comunque non ne rilevi la illegittimità) e che lo stesso arbitro, sulla base delle nuove regole, dia la partita vita al giocatore “A”.

Possiamo dire che quella partita sia stata giocata e vinta secondo lealtà?

Certamente no. 

Riportando l’esempio al processo e valutandolo alla stregua dei parametri del giusto processo, osserviamo che

  1. è stato violato il principio di parità delle armi delle parti in causa, perché il giocatore “A” si è avvalso di un potere (che l’altro giocatore non aveva) in forza del quale ha fatto cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio;
  2. il giocatore “A” e la federazione hanno commesso un “abuso del diritto” (rectius, un abuso del potere regolamentare), utilizzando (in concorso tra loro) il potere regolamentare non per migliorare le regole del gioco ma per pilotare l’esito della partita in corso;
  3. l’arbitro, a sua volta, si è lasciato esautorare e non si è comportato con equidistanza (con “terzietà”): ha dato per vinta la partita al giocatore “A” sulla base di una regola che tutti sanno che è stata emanata proprio per far vincere “A”;
  4. l’arbitro avrebbe dovuto fermare la partita e rilevare:

 (α) di essere stato illegittimamente esautorato della funzione che gli appartiene, perché qualcuno ha deciso al posto suo;

(β) il fatto che il giocatore “A” si sia attivato per far cambiare le regole del gioco è la prova provata che egli sapeva di non poter vincere, altrimenti non si sarebbe attivato per far cambiare le regole.

Veniamo al caso NOV, l’intervento del legislatore appare illegittimo perché è stato effettuato mentre il Collegio era ancora in camera di consiglio; cioè, mentre la Corte di cassazione stava svolgendo la sua funzione di interprete della legge. L’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (R.D. n. 12/1941), stabilisce infatti che “La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”.

Il legislatore ha “scippato” alla Corte la sua funzione istituzionale nel momento in cui la stessa Corte la stava esercitando. Ha emanato una “sedicente” legge interpretativa, nel momento in cui la Corte a ciò delegata stava fornendo la corretta interpretazione. 

In presenza dell’intervento del legislatore, che sostanzialmente è un atto di sfiducia nell’opera di nomofilachia della Corte suprema, questa aveva due possibilità: o recepiva con autonoma motivazione l’interpretazione recepita dal legislatore, oppure avrebbe dovuto sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 134 Cost. Tanto più che l’interpretazione confluita nella legge di interpretazione autentica è una legge emanata dal governo e, quindi, dall’amministrazione finanziaria, che in senso lato, è una delle parti in causa.  Si tratta, come è noto, dell’art. 3, comma 14 septies, del d.l.  27 dicembre 2024, n. 202, che reca l’interpretazione di cui si discute. Il parlamento ha soltanto ratificato l’operato del governo.

A ciò si aggiunga che alla data del decreto-legge, 27 dicembre 2024, la Corte di cassazione aveva già fissato l’udienza di discussione in P.U., come dispone l’art. 363 bis c.p.c. Infatti, l’udienza di discussione si è tenuta il 22 gennaio 2025, per cui deve essere stata fissata molto prima della data del decreto-legge, cioè del 27 dicembre 2024, dal momento che la relativa comunicazione ai difensori deve essere data almeno 60 giorni prima, come dispone l’art. 377, secondo comma, c.p.c. Ne deriva che la decisione circa la corretta interpretazione delle norme coinvolte nel giudizio era imminente e, conseguentemente, mancava il requisito della “necessità e urgenza” di provvedere alla interpretazione utilizzando lo strumento del decreto-legge.

Da quanto detto deriva che la Corte avrebbe anche potuto (dovuto) sollevare eccezione di incostituzionalità della legge interpretative per carenza dei presupposti che legittimano la legislazione di urgenza da parte del governo.

La legge interpretativa è legittima soltanto in presenza di determinati requisiti, altrimenti il legislatore “usurpa” la funzione giudiziaria, che consiste appunto nella interpretazione della legge da parte di un organo diverso da quello che ha emanato la legge. Infatti, l’interpretazione autentica ha un senso se c’è un contrasto interpretativo oppure se non c’è chi possa risolvere quel contrasto. Non ha senso quando è già stato investito l’organo cui istituzionalmente compete la corretta interpretazione della legge. Nella specie, non sono stati mortificati soltanto i contribuenti che si sono rivolti al giudice esautorato, è stata mortificata innanzitutto la stessa Corte di cassazione

Allo stato, quando saranno esauriti i rimedi interni, ci si potrà forse rivolgere alla CEDU per chiedere il risarcimento danni per la violazione del giusto processo. A meno che il giudice di merito, al quale la causa è stata rimessa dalla Cassazione, non abbia il coraggio di rimettere la questione alla Corte costituzionale affinché valuti se il governo abbia legittimamente esercitato il potere della decretazione di urgenza e se poi legittimamente il parlamento abbia ratificato l’operato del governo in mancanza dei necessari presupposti. Non credo che sia preclusivo il giudicato della Cassazione, la quale si è limitata ad affermare soltanto che sono venute meno le “gravi difficoltà interpretative” che consentivano il rinvio pregiudiziale, ex art. 363 bis c.p.c. Il rinvio alla Corte costituzionale avrebbe tutt’altro oggetto. Il giudice delle leggi dovrebbe giudicare non del contenuto del decreto-legge e della relativa conversione in legge, bensì della sussistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza che  consentivano al governo (peraltro parte in causa in senso lato) di scavalcare la Corte Suprema mentre questa aveva già deciso (è stata necessaria la riconvocazione della camera di consiglio per prendere atto dello jus nuvum). 

Antonio Merone